Le perdite su crediti possono essere portate in deduzione, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, ma solo in presenza di elementi certi e precisi: è l’ultimissima della Suprema Corte, pronunciata con sentenza n. 12693 del 21 aprile 2022.
Secondo la Corte di Cassazione, il contribuente che intenda contestare i rilievi accertativi dell’Amministrazione finanziaria, ha l’onere di fornire prova dei fatti costitutivi il preteso diritto alla deducibilità della perdita, e fornire gli elementi “certi e precisi” richiesti dall’art. 76, commi 7-bis e -ter del D.P.R. n. 917/1986 e, dal 2004, dell’art. 110, commi 10 e 11 del medesimo TUIR, atti a dimostrare che la perdita subita si sia effettivamente verificata, mentre incombe sull’organo giudicante valutare la loro idoneità a rappresentare una perdita deducibile.
La Corte ha ribadito, richiamando precedenti pronunce, che la prova a carico del contribuente riguarda la inequivoca definitività della perdita, configurabile a fronte dell’impossibilità di recuperarlo in via coattiva, dopo averne tentato concreta esecuzione.
Se, dunque, il creditore resta inerte nella titolarità del suo credito, esiste un credito inattuato per volontà del creditore medesimo, ma non esistono elementi “certi” per configurare una perdita fiscalmente rilevante.
L’anno di competenza per operare la deduzione deve coincidere con quello in cui si acquista la certezza che questi crediti non possono più essere recuperati, andandosi così a materializzare la certezza e precisione richiesta dalla normativa. In mancanza di elementi certi e precisi, invece, il contribuente potrebbe scegliere il periodo d’imposta più vantaggioso per operare la deduzione, svilendo il principio di competenza, che invece rappresenta criterio inderogabile ed oggettivo per determinare il reddito d’impresa.